Pasta italiana: le domande dei consumatori e le risposte dei pastai

È la regina indiscussa sulle tavole italiane. Ed è sempre più apprezzata all’estero: il 35% dei tedeschi colloca la pasta in cima alle proprie preferenze alimentari e i Millennials francesi la mangiano 2-3 volte a settimana. Nonostante i consensi, i consumatori italiani fanno spesso fatica ad orientarsi fra le fake news che spesso coinvolgono la provenienza e la qualità del grano utilizzato per fare la pasta. Facciamo chiarezza rispondendo alle domande più frequenti.

Grano e controlli: siamo sicuri che la pasta che arriva sulle nostre tavole è di buona qualità? – Assolutamente sì! La pasta che arriva sulle nostre tavole è buona e sicura, ogni anno infatti nei pastifici italiani si svolgono circa 200mila analisi sulla materia prima e 600mila sul prodotto finito. Parliamo di circa 2mila controlli al giorno, tra settore e autorità competenti, per assicurare in primo luogo la salubrità di questo prodotto. Su ogni lotto di macinazione vengono effettuate analisi chimico-fisiche, verifica residui di fitofarmaci e tossine, filth test, che non hanno mai rilevano irregolarità. E i pastifici costituiscono solo l’ultimo filtro di un sistema di controllo pubblico per la sicurezza del grano che è costituito da almeno 15 livelli. Quindi, nonostante gli allarmismi a volte creati, non c’è nessun reale pericolo nella materia prima importata. Se la materia prima non viene riconosciuta di qualità, viene mandata indietro, garantendo così che sulle tavole degli italiani non arriverà mai un pacco di pasta contenente grano non a norma.

Perché non utilizziamo tutto il grano prodotto in Italia? – Non utilizziamo tutto il grano prodotto in Italia perché non è sufficiente a coprire il fabbisogno dell’industria, che richiede circa 6 milioni di tonnellate di grano ogni anno. Inoltre, non sempre il grano italiano possiede gli standard qualitativi necessari. Lo stesso Ministero dell’Agricoltura informa (analisi del Crea) che circa il 40% del grano duro prodotto in Italia è di qualità medio bassa, con un contenuto proteico inferiore al 12%, che lo rende non adatto alla pastificazione. In media, oggi il 70% del grano utilizzato per fare la pasta arriva dall’Italia. Il 30% arriva dall’estero. Non è un segreto, perché i pastai indicano in etichetta o sui siti web l’origine della materia prima. E non è una novità di questi tempi. 150 anni fa la percentuale di grano importato era doppia rispetto ad oggi. Nel caso della pasta, l’origine del grano non vuol dire qualità e sicurezza. Da secoli, noi pastai, abbiamo imparato a riconoscere i grani con le caratteristiche necessarie che rendono speciale la nostra pasta ed è per questo che da sempre selezioniamo i migliori, i più buoni, i più sicuri.

Ma perché in Italia parte della produzione di grano duro non è adatta alla pasta? – Le cause sono climatico-ambientali ma c’entrano anche tradizioni agricole “sbagliate”. Per esempio, in alcune aree del Sud, le rese possono essere elevate ma il grano sconta un basso contenuto proteico: il grano è una pianta che ha bisogno di poca acqua, ma siccità e piogge irregolari limitano il suo assorbimento dal suolo di azoto e altri nutrienti, influenzando negativamente il valore nutrizionale della granella. Inoltre, i terreni sono strutturalmente poveri di sostanza organica, anche perché la tradizione di bruciare i campi per preparare la semina interrompe il ciclo dell’azoto. E il fatto che il grano duro cresca in terreni “difficili” ha reso questa coltura fonte di reddito agricolo dominante, e pochi sono i campi tenuti a riposo o sottoposti a rotazione. Infine, la polverizzazione dell’offerta e la mancanza di strutture di stoccaggio adeguate rende difficile la valorizzazione e la classificazione della materia prima.

Da dove arriva il grano per la pasta italiana? – Dato che di pasta ne produciamo tanta (secondo AIDEPI, 3,2 milioni di tonnellate nel 2016), serve tanto grano di qualità per coprire il fabbisogno medio dell’industria della pasta. La maggior parte ce l’abbiamo in casa. Dal 1967, a fronte di una superficie agricola destinata al grano duro sostanzialmente invariata (circa 1,2-1,4 milioni di ettari), le rese dei campi italiani sono triplicate. Ma la produzione media di 4 milioni di tonnellate annue è sufficiente a coprire solo il 70% del necessario. Questo è il primo, ovvio, motivo per cui siamo obbligati a importare grano dall’estero (il 30% o il 40% del totale a seconda dell’annata). E i pastai italiani lo fanno, da sempre, scegliendo i migliori grani prodotti in aree vocate come Francia, Australia, Messico e Nord America. Infatti anche all’estero c’è un ottimo grano: l’83% del grano estero importato per fare la pasta è di qualità superiore, con un contenuto proteico oltre il 13%. Proprio per questo i grani migliori al mondo che importiamo vengono pagati circa il 15% in più di quello nazionale.

Perché non incentiviamo l’agricoltura italiana? – Lo stiamo già facendo: per ridurre ulteriormente la nostra dipendenza dalle importazioni, sosteniamo da anni l’agricoltura nazionale con contratti di filiera che premiano la produzione di qualità e quella sostenibile, garantendo agli agricoltori italiani un reddito sicuro. A dicembre AIDEPI e le principali associazioni della filiera del grano duro -pasta (Alleanza delle Cooperative Agroalimentari, Confagricoltura, CIA, Copagri, AIDEPI e ITALMOPA) hanno firmato un protocollo volto ad aumentare la produzione di grano duro italiano di qualità e lo scorso 6 luglio l’entrata di Assosementi e COMPAG ha rafforzato l’intenzione di proseguire sul percorso intrapreso e unire le forze per restare leader mondiali della pasta.

Il glutine presente nei grani moderni favorisce l’insorgere di patologie come la celiachia? – L’indice di glutine del grano moderno non è diverso da quello di altre varietà di grano coltivate in Italia da secoli. Inoltre non esistono evidenze scientifiche sul fatto che l’aumento di celiachia e disturbi correlati siano dovuti al troppo glutine presente nei grani moderni. E a chi pensa che mangiare pasta senza glutine faccia dimagrire si sbaglia di grosso: il rischio è di compensare l’adeguato e necessario apporto di carboidrati complessi con un’alimentazione eccessivamente ricca di grassi, che determinerebbe un maggior apporto calorico. Ottenendo quindi esattamente l’opposto dell’effetto sperato.